Lambrusco, storia di un vino giovane
Storia di Roberto Franchini e illustrata da Gabriele Melegari
C’era una volta il mediatore. Non produceva nulla ma aveva in mano il mondo del vino: era lui che faceva il prezzo dell’uva che i contadini vendevano a chi il vino lo faceva. Mediava, ma a favore di chi? Alla fin fine, era un passaggio inutile nel mondo dell’economia. Il suo mondo finì quando contadini e vinificatori decisero di mettersi assieme e non farsi gestire da altri se non da loro stessi.
A Castelfranco la formula per superare il mediatore portò alla nascita di una cooperativa, “della cooperativa”: era il 1959. Il Civ e Civ nacque da una sfida, in apparenza solo economica, ma anche e soprattutto di affermazione di dignità. Era una sfida, come era una sfida la costruzione della loro sede proprio di fronte alla cantina padronale che esisteva da tempo. Fu anche qualcosa di più: i mezzadri, numerosi nelle campagne modenesi, ora potevano conferire la metà dell’uva che spettava al proprietario del fondo ancora a questa cantina ma l’altra metà avevano la libertà di portarla nella cooperativa. Insomma, la cooperativa portò qualche soldo in più ai contadini ma anche una maggiore libertà economica.
Era anche lo spirito del tempo: l’Italia si preparava a vivere e a festeggiare il “boom economico”. La data di nascita della cooperativa può forse essere casuale ma non più di tanto. Guardiamo quella data a sessant’anni di distanza e vediamo i mitici Anni Sessanta.
Il paese cambia passo, gli italiani si spostano da nord a sud, dalla campagna alle città. Dai campi alle fabbriche. Le campagne sembrano il vecchio che va dimenticato, la città è il nuovo che “rende liberi”, come si diceva già mille anni prima. Il lavoro nelle fabbriche e, soprattutto, negli uffici lascia poco spazio per la pausa pranzo, spesso si comincia a mangiare fuori, ci si abitua a mangiare di meno e a bere vini più leggeri.
Tutto cambia, e cambia in fretta. Ecco la lavatrice, ecco il frigorifero e, soprattutto, l’automobile: da Torino arriva un’auto piccola ma alla portata di tutti. Di quasi tutti. E basta? Nel 1954 arriva la televisione, e nelle case entra un nuovo elettrodomestico, il televisore; la Rai comincia a trasmettere le prime trasmissioni: film, telefilm, sceneggiati. E poi lo sport e gli spettacoli del sabato sera, con musica e balletto. C’è anche Carosello, i primi spot pubblicitari mascherati da scenette comiche. I prodotti di consumo entrano nelle case degli italiani e con loro entra il consumismo. E, con il consumismo, trionfa l’America, un paese dinamico e giovane.
L’Emilia, che è terra giovane e dinamica, non poteva che aprirle la porta, soprattutto nella cultura, tanto che si è spesso detto e scritto che questa regione è il 51° stato degli USA.
Una terra di comunismo fatto di lambrusco e popcorn, come avrebbe poi cantato il reggiano Ligabue.
Cambia il vino e cambia il modo di farlo. Non subito, certo, ma senza soluzione di continuità. Soprattutto, comincia a cambiare il gusto di chi lo beve, il vino.
Per il lambrusco cambia anche una storia lunga e, tutto sommato, meno gloriosa di quanto oggi possa sembrare. Il lambrusco era, sostanzialmente, un vino da taglio, venduto nelle regioni del nord per “tagliare” i vini rossi troppo robusti. I produttori modenesi avevano un cruccio: il lambrusco non era vino da invecchiamento e, soprattutto, non era vino che potesse reggere i viaggi sulle navi dirette in America.
Il vino modenese conosciuto dai viaggiatori e dai buongustai era il vino bianco: il Trebbiano, in particolare quello delle colline. Non è un caso se la cantina cooperativa di Castelfranco è famosa soprattutto per i vini bianchi
Il lambrusco si è poi preso la rivincita negli ultimi decenni del Novecento: è sbarcato negli USA come “il vino giovane”, il vino per i giovani e per rimanere giovani. Con qualche ingenuità di troppo, poi recuperata.
I vini sono fatti del loro profumo, del loro colore, del loro gusto (e retrogusto) ma anche dal loro carattere. I vini che rimangono nella nostra memoria hanno un carattere che li fa ricordare. Il lambrusco ha resistito a lungo anche perché sa farsi ricordare: non si impone ma è un buon compagno di tavola, aiuta a combattere la sete e i piatti di una cucina grassa. Non è noioso oppure supponente, non è stupidamente frivolo.
Se leggete i giornali e le riviste troverete quasi sempre un aggettivo a fianco del lambrusco: giovane. Il lambrusco è un vino giovane. Sono pochi o, forse nessuno, i vini che possono definirsi giovani e con questo carattere imporsi nella memoria.
Ma il lambrusco ha alle spalle un forte leggenda di vino, se non giovane, giovanile. E quali i segni della gioventù? La forza vitale, l’irruenza, lo slancio, la passione, l’anticonformismo”. Non tutti assieme e non per sempre, ma insomma…
"Il Lambrusco – ha scritto Curzio Malaparte – non solo è il vino più garibaldino del mondo ma il più generoso, il più libero, il più italiano fra tutti i vini italiani. Un buon bevitore di lambrusco non è soltanto uomo fiero, ardito e generoso: è soprattutto un uomo libero!"
In realtà, il lambrusco è un vero vino emiliano, borghese e popolare insieme. Con le dovute distanze e differenze. Pare quasi che esistessero due mitologie dello stesso vino: l’una era quella delle osterie popolari, affollate di gente del popolo, punto di ritrovo dei combattenti per l’Unità d’Italia, dei Garibaldini, degli anarchici di Bakunin e di Andrea Costa, dei socialisti di Camillo Prampolini. L’altra era quella del vino della fragile borghesia moderata, alla quale apparteneva il commediografo e poeta Paolo Ferrari, dei banchetti poetici alla Felice Cavallotti o dei brindisi dei liberali progressisti. O, forse, il lambrusco era il più interclassista dei vini, come ancora oggi si dimostra. Perfetto per l’Emilia di oggi.
Non so quanti, nel 1959, si resero subito conto che si chiudeva un capitolo di storia durato a lungo, molto a lungo. Eppure, così è stato e, se la nuova cooperativa ha resistito al tempo, vorrà pur dire qualcosa. Che ci sono mode che passano e vini che restano.
Oggi quella cooperativa è una delle maggiori aziende italiane.
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