Il Teatro Anatomico di Palazzo Paradiso
Illustrazione di Chiara Sgarbi, storia di Alice Pelucchi

Parto da una confessione: con il termine teatro anatomico la prima cosa a cui penso è un’opera uscita dalla mente di Rudolf Steiner, come il “Goetheanum”: un edificio curvilineo fatto per accogliere ogni forma d’arte in modo organico. Poi mi rendo conto che è una mia deriva e scivolo nell’estremo opposto, verso la sala operatoria lugubre di The Knick, nella New York di inizio ‘900, dove la chirurgia è spettacolo e sfoggio dell’ego dei medici, con un realismo al limite della sopportazione — anche per chi, come me, è cresciuta tra film di Dario Argento e racconti di interventi.

Questa sala interamente di legno non appartiene a nessuno dei due estremi: il teatro anatomico di Palazzo Paradiso è molto luminoso, geometrico, progettato per offrire una visuale ottimale sul tavolo di dissezione e lo trovo stranamente accogliente. L’intervento in occasione dei 50 anni della cooperativa Copma – 40mila euro erogati tramite l’Art Bonus – è iniziato con la disinfestazione antitarlo che ha sigillato e saturato con anidride carbonica la stanza ottagonale. Poi c’è stato il trattamento a spruzzo, la stuccatura delle perforazioni e infine la riscoperta dell’azzurro del settecento.

Infatti quello che mi colpisce di più entrando, messo in risalto da un limpido sabato mattina che filtra dalle vetrate, è il colore delle gradinate di legno. Prima di iniziare il restauro del 2021, Copma, la Soprintendenza e il restauratore Alberto Sorpilli hanno ragionato a lungo se riscoprire la tonalità vivace del ‘700 oppure mantenere quella più smorzata del 1986. La scelta è ricaduta sul colore originario e ne sono felice, ma ripenso a come invece sia la precedente nuance tenue quella che circondava mia nonna quando presentava per la prima volta le sue ricerche di anatomia patologica, poi diventate la base del suo lavoro di una vita. Nei suoi racconti per me quei giorni odorano di formaldeide e hanno il suono dei topini nello stabulario del Mammuth. Ora quei ricordi hanno anche uno sfondo pastello.

In epoca recente qui le presentazioni erano perlopiù riservate ai soli membri dell’Ateneo, ma per almeno mezzo secolo dopo la sua costruzione, nel 1731, le dissezioni erano davvero aperte al pubblico. È strano pensare a come siano state anche per molto tempo uno spettacolo itinerante: i teatri smontabili duravano solo per il periodo delle lezioni e i tavoli anatomici venivano posizionati in locali sia pubblici che privati, come chiese, case di professori, collegi o botteghe. Solo quando il pubblico divenne troppo numeroso si decise di erigere un teatro permanente, dotato di luce naturale e temperatura adeguata.

Mi guardo intorno ricordando di aver letto di tre ingressi: l’ampia porta del docente verso il cortile di Palazzo Paradiso, l’ingresso degli studenti sul lato opposto e lo sportello stretto per il passaggio dei cadaveri. Ma ne conto quattro. Devo assolutamente togliermi questo dubbio: secondo l’IA la quarta porta – in origine finestra di illuminazione o servizio – è stata adattata solo in epoca moderna per l’ingresso dei visitatori. Anche sull’identità dei quattro busti in marmo, non facenti parte della decorazione del Settecento, l’IA non può trattenersi dal darmi una risposta, pur ammettendone l’incertezza: tra le effigi potrebbero esserci Giovanni Battista Canani, anatomista ferrarese che ha dato il nome a una parte della mano, Giacinto Agnelli, Girolamo Fabrici d’Acquapendente e Marcello Malpighi. Un’amica mi ha raccontato che uno dei busti fu scalpellato via dai goliardi qualche anno fa, forse per la somiglianza con un loro compagno. Ora comunque sono tornati insieme, chiunque essi siano.

Seduta sugli spalti di fronte all’ingresso principale, il mio sguardo si fissa sul pavimento: sarà originale, consumato dal sangue, dai secchi e dalla segatura? In effetti attorno al tavolo risulta più lucido, probabilmente per i passaggi di chi si occupava delle pulizie. Le mie elucubrazioni su dove andasse a finire il sangue vengono interrotte dall’entrata di un ragazzo. È uno studente di medicina che ha portato un amico a visitare il teatro. Mi racconta che all’epoca Ferrara era tra le poche città in Europa a poter disporre di cadaveri freschi: le università di Bologna, Padova e Ferrara si approvvigionavano per le loro dissezioni soprattutto tra i condannati a morte o negli ospedali. Nella nostra città, in particolare, gli studi di anatomia erano già molto consolidati e, anche dopo la devoluzione estense verso il controllo pontificio, c’era un’inusuale disponibilità di corpi. Al contrario di quanto pensassi, la Chiesa allora non poneva grossi ostacoli all’utilizzo di cadaveri a fini scientifici e didattici.

Questo teatro nell’Ottocento è stato soppiantato da quello nel nuovo padiglione del Sant’Anna. E così Ferrara divenne una sorta di “teatro anatomico all’aperto”: questa definizione provocatoria non è mia, ma di Daniela Fratti, scrittrice e storica della medicina (e, tra le altre cose, anche allieva di mia nonna) che mi racconta delle numerose lettere dell’epoca da parte di cittadini infuriati per l’odore di formaldeide e decomposizione che invadeva il centro, nella zona dietro al Boldini. La questione della pulizia e della sanificazione stava diventando centrale. E lo è ancora. Come per Copma, fondata negli anni ’70 da un gruppo di donne con secchielli e scope e oggi diventata partner scientifico dell’Università di Ferrara. Il loro PCHS® (Probiotic Cleaning Hygiene System) combina un mop tecnico con detergenti a base di colture microbiche: batteri buoni che colonizzano le superfici e impediscono ai patogeni di proliferare. Ormai numerosi studi internazionali, condotti dal Centro Ricerche CIAS e dall’Azienda Ospedaliera di Ferrara, ne hanno certificato l’efficacia a lungo termine, tanto da definirlo “il vaccino per le superfici”. Me le immagino un po’ come streghe dei nostri tempi, a cavallo di un mop invece che di una scopa, mentre compiono rituali di purificazione e protezione. Oggi il PCHS® è applicato con successo in ambulatori, ospedali e scuole, anche se il suo utilizzo non è ancora così diffuso come potrebbe.

Nella Breve storia del corpo umano, Bill Bryson ci ricorda che anche dentro di noi siamo più microbi che cellule umane.

Copma lavora proprio in armonia con questa osservazione: non sterminare a tappeto, bensì selezionare alleati con cui cooperare. Che poi è lo stesso concetto del microbiota intestinale, solo che mentre i media lo usano per venderci un altro yogurt che ci cambierà la vita, Copma lo ha reso una reale forma di protezione della salute e dell’ambiente. Prima di lasciare il teatro, mi fermo un momento per respirare tutto quello che è successo in questo luogo. Ogni gesto in fondo, dissezionare un cadavere oppure passare un mop, può diventare un atto di cura collettiva.

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