Bubu e Cocò al Centro Armonico Terapeutico 
Storia di Marcello Parmeggiani “Targi”, illustrazione di Francesca Fiocchi
				Mi chiamo Bubu e sto con persone speciali. Con Cocò ci siamo divisi i compiti: io con la mia calma, la mia pazienza pesante prendo i più mossi; lei sta con i più chiusi, a cui dà tutta la sua gioia contagiosa. Sono qua dall’inizio della cooperativa e della mia vita precedente non ho molti ricordi, ma di questa so che me la sono goduta. Di sera ci troviamo insieme agli altri al giardino zen per raccontarci cosa abbiamo fatto.
– Hai visto quella signora con le mani che le tremavano? dice Buck. Sì, dice Cocò, ma quando ha posato la fronte sulla mia schiena ha smesso. Mi chiedo cosa penserà il grande masso del giardino che ci ascolta discutere del senso della vita o immaginare cosa ci sia oltre il nostro casale o su – questo mi interessa molto – cosa ci sarà da mangiare domani. 
– Bubu sei sempre il solito; forse lui non parlerà, ma ci ascolta, ci fa parlare, ci aiuta a focalizzare la mente, lo stato di concentrazione e raccoglimento.
Cocò è il terzo occhio del gruppo, ma anche quinto o sesto. Buck invece parla di ciò che si dice dentro il casale: sull’importanza del gruppo e del lavoro di équipe, del valore della bellezza, del dialogo e del prendersi cura. 
Gli ottimisti tra noi dicono che esistono tanti mondi uguali al nostro, io sostengo invece che siamo un posto raro, se non unico. Temo che gli umani là fuori si stiano ammalando di egoismo e abbiano dimenticato il valore dell’empatia e così la loro vita si è svuotata di relazioni.
Si è fatto tardi e saluto tutti, ho già i miei vent’anni suonati. Non è facile essere testimoni quotidiani delle fragilità umane. Per me è stato un dono: vivere vicino ad umani che scelgono la gentilezza, che imparano a respirare insieme realizzando che la vita non è una gara ma un cammino condiviso. Cocò mi segue come un cagnolino.
– Il gruppo – dice – è importante perché ti dà la possibilità di parlare della tua esperienza con persone che vivono situazioni simili in un ambiente protetto e in assenza di giudizio. C’è tanto stress e pressioni fuori vero?, mi chiede.
– Temo che tante persone là fuori si sentano inadeguate, fragili, timorose di non sentirsi accettate.
Ma in questa cooperativa si ritrovano, le aiutiamo ad entrare di nuovo in relazione con loro stesse.
La positività di Cocò mi sta facendo passare il sonno.
Ma tu hai capito cos’è la mindfulness? Sono tipo esercizi di rilassamento?
– Molto di più Bubu. È uno stato di consapevolezza, disponibilità a entrare in contatto con la propria esperienza anche quando questa è difficile o scomoda.
– E questo permette un incontro più autentico con se stessi e con il mondo?
– Esatto, sin da piccoli. Qui oltre alla pet therapy si fanno attività creative, centri estivi, laboratori per farli mettere in gioco, ascoltando la natura e sviluppando sensibilità e consapevolezza. Anche sul luogo di lavoro ce n’è necessità, i ragazzi fanno programmi anche per le aziende.
– Non so cosa sia un’azienda Cocò, ma se si lavora non fa per me. Io sto bene qua dove si coltivano cura e benessere, con le persone speciali che vengono qui pensando di ricevere serenità ma in realtà portano sempre qualcosa insieme a qualche dolcetto: le loro storie, le loro lacrime, le loro risate.
– Che restano tra i rami di questi alberi come fili invisibili che si intrecciano. E noi – dice – siamo i custodi di quella trama, anche grazie a te Bubu. Fai sempre il vecchio burbero, ma alla fine hai un cuore grande. E dovresti fare yoga, sei pigro!
– Ma mi ci vedi con il fisico che ho?
– Le solite scuse, scopriresti ciò che già esiste ma a nuovi livelli sempre più profondi. Non vedi come escono dalle lezioni?
Cocò aveva ragione. Più leggeri, rigenerati, connessi.
– Perché questo – dice Cocò – è un luogo che include, dove i confini si aprono e le persone imparano ad essere più autonome. E anche se non lo vuoi ammettere, Bubu, sei diventato anche tu qualcosa di diverso: da mascotte a un compagno di viaggio, un osservatore privilegiato delle rinascite umane.
Non mi sento così importante, le dico. Ho solo imparato col tempo che il semplice stare insieme, condividere silenzi e sguardi, può guarire più di molte medicine. 
– Perché qui si pratica il proporre invece che l’imporre.
– Però la dieta me la impongono, mica me la propongono!
– Bubu, sei sempre il solito. Saresti perfetto per NON condurre un gruppo di autocoscienza!
– E cosa sarebbe?
– È uno spazio di condivisione e riflessione collettiva dove si esprimono liberamente pensieri, emozioni ed esperienze personali in un ambiente di ascolto e rispetto reciproco.
– E a cosa serve?
– Da quanto ho capito siamo in un’epoca di grandi cambiamenti nei ruoli di genere e nelle relazioni. E tanti non trovano più i vecchi riferimenti e reagiscono con la violenza. Vengono tante donne. E chi lavora nella relazione d’aiuto ha una grande responsabilità: accogliere, ascoltare e accompagnare con competenza e rispetto le vittime per comprendere, prevenire e contrastare la violenza.
– E gli uomini?
– Stanno arrivando un po’ con i loro tempi, dovresti saperlo. I gruppi di autocoscienza offrono loro l’opportunità di riscoprire e ridefinire la propria identità maschile oltre gli stereotipi tradizionali. Per loro è iniziare un viaggio verso una maschilità più autentica e consapevole, capace di costruire relazioni più sane con se stessi e con gli altri.
Io non so cosa ci sia fuori da qui, ma nella mia vita ho capito che possiamo conoscere noi stessi solo attraverso un altro, che non ci è concesso di riuscirci da soli. In fondo ho speranza in ciò che verrà, ho speranza se dopo di me ci sarà Cocò.
– Bubu, non ti lascio andare a letto se non mi racconti una storia.
– Te ne racconto una per tutte le persone passate di qui, quella di Martina, una bambina nata con sindrome genetica “cri du chat”. Martina ha una gioia di vivere incredibile, una esplosività emotiva e motoria e una grande volontà di approcciarsi agli altri. La sua mamma non sa cosa fare e un giorno la porta qui per farle fare una esperienza da persona speciale qual era. Con il tempo impara ad autocontrollarsi e mette in atto contatti affettivi adeguati, soprattutto con animali come noi che siamo diventati i suoi compagni di vita di cui racconta quotidianamente.
- E come finisce la storia?
- La storia non è finita.
				Martina e gli altri sono ancora qua.
È tardi, mi sdraio sulla paglia sognando che un giorno qualcuno racconterà di me e di Cocò come di due amici che hanno insegnato senza parole. Che sorrideranno all’idea di un vecchio maialino scontroso e di una cagnolina saggia. A me basta sapere che per vent’anni ho avuto un posto nel cuore di chi ha trovato pace in questa cooperativa. È questo il ricordo che porterò con me, insieme alle corse di Cocò, al cibo buono e all’odore dolce della terra dopo la pioggia.
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